Metodo Orff-Schulwerk: per la Musica ci vuole Orecchio, Cuore…ma soprattutto Cervello!

La musica percepita da orecchio, cuore e cervello

Nelle ricerche e nelle letture che faccio per il mio lavoro molto spesso ritrovo un pensiero comune sull’importanza della musica e della danza nella crescita psicofisica dei bambini. In particolare Micheal Merzenich, ricercatore dell’Università della California a San Francisco, spiega: Il cervello del neonato è come un computer che dopo essere stato acceso, inizia per conto suo a creare nuovi programmi e nuove funzioni. Quando il bambino raggiunge i tre anni il suo cervello ha molte più connessioni di quelle che potrà mai adoperare. Inizia allora un processo di selezione che elimina i collegamenti meno usati per dare spazio alla crescita delle connessioni più utilizzate. Se il bambino utilizza questi legami ripetutamente, nella sua vita quotidiana essi diventeranno parte permanente della rete dei circuiti celebrali”. Se vengono, quindi, forniti al bambino mezzi di apprendimento di diversa natura, più collegamenti sarà in grado di fare e maggiore sarà il numero delle connessioni utili al suo sviluppo.
I ricercatori dell’Università di Princeton sono riusciti a provare non solo che è possibile rigenerare nuove cellule celebrali dopo la nascita, ma che la loro crescita dipende da tre fattori:

  1. gli stimoli che il bambino riceve dall’ambiente
  2. le attività di apprendimento
  3. i bassi livelli di stress

Don Campbell, autore di numerosi libri sulla relazione tra musica e capacità intellettive, sostiene che la musica di Mozart sia la migliore per stimolare la creazione di nuove connessioni neuronali. I brani di Haendel, Vivaldi, Bach, Corelli e Teleman riescono a stimolare sia l’emisfero destro (sede della percezione delle immagini, delle intuizioni, della gestione dello spazio, dell’emotività e dell’affettività) sia l’emisfero sinistro (sede del pensiero logico, del linguaggio e del calcolo) con il risultato di integrare le due funzioni e favorire la concentrazione.

Gli psicologi dell’Università di Irvine, in California, hanno dimostrato che bambini di 4 anni, cui erano state date lezioni di pianoforte per sei mesi, aumentavano del 34% le loro capacità intellettive nel campo del ragionamento spazio-temporale. L’esposizione alla musica, come riscontrato dall’utilizzo di tecniche diagnostiche quali la risonanza magnetica funzionale e la tomografia, durante i primi anni di vita, è in grado di rafforzare i circuiti neuronali e stimolare la creatività; sembra addirittura che possa aiutare a conservare alcuni dei milioni di cellule di cui siamo forniti al momento della nascita: cellule che se non usate, sono destinate ad esser perdute.

Da diversi anni si sperimentano fin dai primi mesi di vita approcci diversi alla musica come il metodo Gordon, Dalcroze, Orff, solo per citarne alcuni, che si basano sull’utilizzo pratico del corpo, del movimento e della voce come veicoli che permettono un apprendimento musicale diretto ed efficace.

Proprio per approfondire lo studio di questo legame tra corpo e ritmo, tra danza e musica ho preso parte ad un seminario di Formazione Musica Dalcrorff tenuto da Ciro Paduano e Marcella Sanna, esperti certificati del metodo Orff- Schulwerk italiano. E’ stato un seminario impostato su molta pratica e poca teoria. Nella modalità orfiana il coinvolgimento del corpo è immediato; quasi tutti gli esercizi sono impostati su uno schema particolare che inizia con una pulsazione ritmica, cui segue una ritmica verbale, poi una ritmica gestuale fino ad arrivare alla ritmica del movimento. Si usa lo spazio come luogo fisico dove comporre un ritmo improvvisato e definito insieme agli altri.

È coinvolgente perché si fa musica con il corpo attraverso la body percussion, non è solo un lavoro personale di educazione all’ascolto su sé stessi, ma quando la coreografia richiede il coinvolgimento del gruppo diventa esperienza collettiva. Ciro e Marcella sono stati bravissimi, ognuno con la sua preparazione e le specifiche competenze, ci hanno messo subito a nostro agio permettendoci di cogliere pienamente il senso di questo metodo, ma soprattutto ci hanno fornito le basi per poterlo riproporre, ciascuno nei propri ambiti professionali, tenendo bene a mente che è importante prima FARE (mostrare cioè ai bambini in che cosa consiste l’esercizio e cosa richiede) FAR FARE lasciare la possibilità ai bambini di riprodurre l’esercizio richiesto, di avere il tempo di pensare a quello che si sta facendo e come, ma soprattutto di VALORIZZARE dando spazio alla creazione libera e spontanea, al contributo unico e speciale di ciascun bambino, attribuendo valore al proprio lavoro se condiviso con gli altri.
Rimanendo sul tema della relazione che intercorre tra musica e corpo, ho partecipato ad un workshop molto interessante tenuto dal percussionista Enrico Malatesta. Enrico è attivo in ricerche di carattere sperimentale e da ormai alcuni anni propone laboratori teorici/pratici sulla interazione tra evento sonoro, spazio e corpo. Nei suoi laboratori gli strumenti non sono considerati nella loro accezione musicale ma si trasformano in oggetti di studio e di analisi per una nuova esperienza di ascolto.

Il suo laboratorio mi ha regalato vari spunti di riflessioni e punti di vista non scontati sul modo di percepire il suono e noi in relazione ad esso. Ha parlato della “dinamica della distanza” e del “limite dell’udibile”, cioè di ciò che il suono può fare nello spazio, di come noi dobbiamo allenarci a riconoscere il suono che si allontana, fin dove arriva, che spazi percorre, quale distanza di tempo copre, con quali superfici viene a contatto e come si trasforma, quale ricordo crea. Questo mi ha fatto pensare anche all’importanza e al valore delle pause, la pausa è un momento attivo di concentrazione e proiezione per l’azione successiva, è lo spazio dove convivono allo stesso tempo la fine e l’inizio. Un altro pensiero su cui ha posto l’attenzione Enrico è stato quello di capire l’impatto che noi abbiamo nei contesti, sulla quantità e qualità dei suoni che produciamo, in pratica una nuova forma di rieducazione ambientale. A questa idea si lega quella del “corpo rudimentale”, di muovere solo ciò che serve nell’incontro con lo strumento, di accompagnare il movimento con il respiro, di non utilizzare maggiore energia di quella che serve. Altro lavoro interessante è stato quello di esplorare le zone di contatto tra i due o più strumenti, di come il suono tra questi strumenti diventa unico, si trasforma in un terzo strumento; cogliere così i tanti accenti diversi che crea nello spazio perché, ha concluso Enrico, “bisogna cercare di agganciare l’instabilità delle cose che c’è”.

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